Ringraziamo Michele Busi  esperto  di storia,  per aver messo  a disposizione  alcune  sue ricerche...



La foto qui sotto ritrae alcune filandiere di San Gallo 1920-30,
l'età di queste ragazze non era superiore ai 20 anni


   Curriculum Michele Busi

Cultore della materia di Storia economica (dall'a.a. 2002-2003) presso la cattedra di Storia economica dell'Università Cattolica del S. Cuore, sede di Brescia.

Collaboratore dell'Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia, sezione di Brescia.

Collaboratore Fondazione Civiltà Bresciana.

 Dottorato di ricerca in storia economica conseguita il 16 aprile 2010 presso la Scuola di dottorato in Economia (XXII ciclo) - Università degli Studi di Verona.

Titolo della Tesi di Dottorato: “Amministrazione finanziaria e funzioni di beneficenza nella storia della Congrega della Carità Apostolica di Brescia nei primi decenni post-unitari”.

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filandaie

Tre anziane filandiere, all'inizio del secondo millennio, raccontano della loro gioventù e del loro lavoro in filanda, e ripetono con insistenza una frase che   riportiamo e mettiamo in evidenza, anche per chi non capisce il dialetto bresciano: «nella nostra gioventù abbiamo cantato, cantato molto...cantavamo sempre al ritorno del lavoro, a piedi, lungo i sentieri... eravamo povere ma molto felici...». E questo, pur non avendo nulla, loro stesso dicono che avevano la pancia vuota, questo ci fa riflettere...e molto... 

Padre Mansueto Girotto ci spiega la lavorazione artigianale del bacco da seta alla fine dell' 800 ( tratto da storie di filanda del gruppo audiovisivo oratorio San Gallo  prodotto nel 2000) 

 
 

 L'INDUSTRIA SERICA A BOTTICINO TRA '800 E '900 

E LE PRIME FILANDE

Michele Busi

(tratto da M.Busi-M. Tedeschi, Il lavoro a Botticino nel Novecento, Brescia 2005)


1) La situazione a Botticino

Anche a Botticino la filatura e la tessitura verso la metà dell'Ottocento cominciarono a diffondersi al di là dell'uso strettamente domestico.

Le due filande che operavano a Botticino in quegli anni erano quella di Francesco Zamara a Sera e quella di Antonio Cazzago a Mattina. Si trattava di due filande che seguivano metodologie diverse di lavorazione.

Il nome della filanda Zamara emerge per la prima volta proprio nei resoconti dello Zanardelli. Egli, infatti, dopo aver constatato che, a differenza del resto della Lombardia, nel bresciano era scarsissima la diffusione delle filande a vapore («Ed è a lamentarsi che sì scarso sia presso di noi il numero delle filande a vapore; perocché, sebbene costi forse una triplice spesa il loro impianto, molti sono e rilevanti i vantaggi inerenti alle stesse»), poteva con soddisfazione annotare che «tra le filande, in cui agente universale è il vapore, vanno distinte quella del signor Zamara a Botticino, e quella dei fratelli Franchi presso Brescia».

Agli occhi di Zanardelli ciò costituiva senza dubbio un grande merito. Egli proseguiva: «Concludendo, può dirsi con sicurezza ad ogni modo che le nostre sete, ottenute in queste poche filande, le quali si misero pressoché al livello della scienza e della miglior pratica industriale altrove abbracciata, lasciano ben poco a desiderare ed offrono tutti i caratteri, dei quali deve pregiarsi il filo serico più eccellente, mentre nelle matasse dei signori Franchi, Zamara, Borghetti si rimarca la completa assenza di pelo e di gruppi, la rotondità del filo, la nettezza, la pastosità, la lucentezza, la perfetta uniformità, la finezza ed elasticità, pregi tutti che le possono far ricercare avidamente nei luoghi della più distinta fabbricazione».

Nell’elenco finale degli espositori, veniva espressamente citata la filanda «Zamara Francesco, con filatoio alla Tavelle in Botticino Sera», che aveva esposto «tre ma5tas5se di seta greggia del titolo 8-9, tratte da bozzoli di differenti sementi».

Lo stesso Cocchetti due anni dopo, nel suo resoconto sull'economia bresciana, nomina la filanda Zamara.

Il vantaggio delle filande a vapore era indubbio: esse permettevano una maggiore produzione e una qualità migliore. Per quanto riguarda la torcitura della seta, i costi di impianto erano generalmente più elevati e richiedevano maggiore competenza che non la fase della trattura.

L'altra filanda botticinese, quella di Antonio Cazzago, era ugualmente apprezzata dallo Zanardelli, anche se meno all'avanguardia.

Dopo aver, infatti, lodato le poche filande che facevano uso del vapore e aver stigmatizzato quelle che utilizzavano il fuoco diretto, egli aggiungeva: "Ma, se questo intento nella trattura rifiuta i grandi processi meccanici e l'applicazione d'ogni progredito industriale procedimento, però esso non esclude il filar bene, l'adoperare ogni cura e diligenza, ogni più razionale regola e norma conciliabile colla semplicità del sistema".

Proseguiva: "E tanto è vero potersi anche in filande di simile natura ottenere un filo egregiamente riuscito, che vediamo a noi d'intorno alcuni intelligenti e periti filatori, come il signor Antonio Cazzago di Botticino, e i signori fratelli Moro di Poncarale, produrre ottime sete, le quali, se non raggiungono completamente la perfezione delle migliori di Brianza e in generale di quelle più squisitamente dipanate a vapore, nondimeno possono figurar con onore accanto alle medesime.

La ditta Antonio Cazzago era intervenuta all'Esposizione con "due matasse di seta greggia del titolo 18-22, una tratta da bozzoli del Friuli, l'altra da bozzoli del Tirolo".

Dire Cazzago a Botticino Mattina significa parlare di grandi proprietari terrieri. I nobili Cazzago da secoli (almeno dalla fine del Quattrocento) avevano grossi possedimenti nella contrada di Mattina. Verso la fine del ‘500, secondo il Catastico, possedevano ben 550 piò su 700 (i 2/3 dell’intero territorio di Botticino Mattina) .

Certamente la possibilità di avere a disposizione con più facilità molta manodopera già utilizzata nella lavorazione agricola fece optare con ogni probabilità la ditta Antonio Cazzago per un tipo di lavorazione tecnologicamente meno all'avanguardia, ma anche meno impegnativa dal punto di vista degli investimenti, perché facilmente riconvertibile nelle attività agricole già tradizionalmente praticate.

Tuttavia, proprio la mancanza di investimenti (come poteva essere la conversione al vapore) non poteva che dare 'respiro corto' alle prospettive di sviluppo della filanda. Infatti già prima della fine dell'Ottocento di essa non si hanno più notizie.

Con alterne fortune, derivate dalle periodiche crisi dei raccolti di materia prima, l'attività delle due filande proseguì anche nella seconda metà dell'Ottocento, quando, però, il settore iniziò a manifestare i primi segnali di una crisi che investiva ormai l'intera produzione nazionale. Nei vari rapporti della Camera di Commercio di Brescia si leggono le cifre di questa trasformazione industriale che avrà delle ripercussioni notevoli anche sulla vita dei due paesi.

La concentrazione in grandi opifici fu uno dei fattori che favorì lo sviluppo tecnologico e maggiori investimenti. Secondo le rilevazioni della Camera di Commercio del 1869, gli agricoltori che provvedevano direttamente alla trattura della seta erano in costante diminuzione. Verso fine Ottocento ormai tutte le filande si può dire fossero a vapore. Gli industriali tentavano in questo modo di raggiungere due obiettivi: ridurre i costi di produzione e ottenere un prodotto di più alta qualità.

Indicazioni interessanti su Botticino si possono ricavare dallo studio di Carlo Simoni, Alle origini di un distretto industriale, che pur occu5pandosi in modo prevalente della prima metà del Novecento, getta alcuni sguardi anche sugli ultimi anni dell’Ottocento, facendo intravedere come fin da quel periodo fossero state gettate le basi per il nascere e l'affermarsi di quella vocazione tessile che accompagnerà tutti gli ultimi decenni di attività a Botticino Sera.

La filanda di Antonio Cazzago non è più nominata nei vari rapporti della Camera di Commercio dei primi del Novecento; essa aveva cessato la propria attività verso la fine del secolo.

Quella Zamara tentò, con alterne fortune, di sopravvivere alla crisi del settore.

Negli ultimi anni dell'Ottocento comparve a Botticino un'altra filanda, quella di Angelo Barbiani, chiamata il filandino, che occupava all'inizio poco più di venti persone.

Barbiani era partecipe delle vicende economiche di Botticino Sera: fu lui, tra l'altro, il primo direttore della filanda aperta da don Arcangelo Tadini.


Se rimaniamo nell’ambito dell’industria serica, gli Annali di Statistica, per quanto riguarda le notizie sulle condizioni industriali della nostra provincia nel5l'anno 1892, a proposito di Botticino segnalano la presenza di un'industria per la trattura della seta, che con ogni probabilità, è proprio la filanda Zamara, la quale poteva vantare una caldaia a vapore, sessanta bacinelle e in tutto 86 lavoratori, di cui 82 donne (12 sotto i quindici anni) e quattro uomini.

2) Don Arcangelo Tadini

Di fondamentale importanza per il paese, in quegli anni, fu senz'altro l'opera del parroco Don Arcangelo Tadini, che nei venticinque anni della sua azione pastorale nella Valverde si impegnò direttamente per dare un lavoro a tanta gioventù femminile di Botticino.

L'intuizione di come gli opifici potessero svilupparsi salvaguardando la dignità delle donne, divenendo al contempo luoghi cruciali per l'apostolato e la santificazione delle lavoratrici, lo portò ad impegnarsi in prima persona per diffondere questa originale 'via alla santità'. La Rerum Novarum era stata promulgata da Leone XIII proprio in quegli anni: un semplice parroco di provincia come il Tadini capì molto presto le potenzialità di questa enciclica. La Chiesa ora ha riconosciuto le virtù eroiche di questo sacerdote proclamandolo beato.

In un appello divenuto famoso, egli scriveva:

«Se la Classe operaia in generale è miserabile, quella che lavora nei Setifici è la più miserabile (...) perché deve lavorare in un ambiente sempre chiuso, caldissimo, attaccata ad una bacinella dove l'acqua bolle a 80 gradi centigradi;

per apprendere bene quest'arte, l'operaia deve entrarvi nella più tenera età, ed esercitarvisi continuamente, senza aver tempo d'imparare neppure ad accudire alle domestiche bisogna;

la materia che forma l'esercizio di questa operaia è tra le più delicate, preziose e difficili;

questa operaia deve avere, attitudine non comune, buona vista, se non robustezza, certo sanità, in modo speciale poi un'attenzione tale, che neppure le arti più difficili ne richiedono l'uguale (...);

(perché) questa operaia non può neppure sperare in un almeno lontano avanzamento di posto e miglioramento di paga (...).

Pure una gran quantità di gioventù entra in quest'arte, e vi ritrae il suo sostentamento; (...) molte di queste povere operaie dopo aver sciupato la loro gioventù in quest'arte, che ha tenuto occupate tutte le loro forze, in età avanzata si trovano incapaci a proseguire in essa, e incapaci a guadagnarsi il vitto in altro modo; (...) mentre per il loro lavoro, avrebbero diritto ad un giusto ed onesto riposo, restano invece quali spostate, come limoni spremuti, senza sostentamento (...)».

Del resto, che il lavoro in filanda potesse risultare deleterio anche per la condotta morale delle lavoratrici l'aveva intuito a suo tempo anche Paola di Rosa, fondatrice delle Ancelle della Carità (proclamata santa da Pio XII nel 1956), che dal 1831, per cinque anni, diresse la filanda paterna di Acquafredda, in cui prestavano servizio una settantina di operaie.

Il primo biografo della santa, accennando ai tanti problemi che dovevano affrontare le giovani nelle filande, sottolineava: «Queste riunioni di molte giovani per più mesi se non sono ben dirette e custodite dai loro padroni, diventano scuole di immoralità, ed occasioni di rovina per le anime. Fra i padroni di questi opifici vi sono alcuni che intenti solo al lucro materiale, vegliano con cento occhi sul lavoro delle filatrici, perché non perdano un minuto di tempo, e le sete riescano di loro aggra5dimento; ma non si danno pensiero alcuno della moralità di tante giovani, che in que' mesi sono affidate alla loro custodia».

Nella biografia del fondatore delle Suore Operaie, Luigi Fossati accenna anche alla filanda Zamara: «C'erano in paese, a quei tempi (siamo nei primi anni Novanta, nda), due filande: l'una detta 'la filanda alta', di pro5prietà Zamera, con una ottantina di persone; e l'altra detta 'fi5landina', nei locali dell'attuale casa di riposo, di proprietà Barbiani, con una ventina di persone». Come si può notare, erano di piccola dimensione e non lavoravano tutto l'anno.

Proprio la chiusura della 'filanda alta', con il conseguente pendolarismo verso Lonato cui dovettero sottostare una ventina di operaie, spinse Don Tadini al tentativo di realizzare una nuova, moderna filanda. Infatti le ragazze rimanevano al lavoro tutta la settimana e tornavano a casa solo la domenica. L. Fossati annota: «Questo fatto di un grosso contingente di ragazze che per tutta la settimana rimaneva lontano dalle proprie case fuori paese, senza controllo, era una spina nel cuore del Fondatore. (...) E con quello spirito di iniziativa che gli era naturale, stabilì di aprire una filanda sufficiente per assorbire tutta la mano d'opera locale».

Così nel 1895, dopo molte traversie, Don Tadini riuscì a portare a termine la costruzione della sua filanda, modernissima per quei tempi23, grazie a prestiti da parte di generosi privati e a un mutuo di 50000 lire erogato dalla Banca San Paolo di Brescia, fondata sette anni prima da Giuseppe Tovini, con il quale l'arciprete aveva avuto contatti già quando era curato alla Noce.

La filanda del Tadini si proponeva anche come mezzo di santificazione tramite il lavoro. Le Regole del 1898 delle Suore Operaie affermano esplicitamente: «Fine dell'Istituto delle Suore Operaie della S. Casa di Nazareth è tanto la salvezza e la santificazione propria nella pratica dei consigli evangelici, quanto la salvezza e san5ti5fi5ca5zio5ne della classe operaia femminile secolare».

Lo stesso fondatore scriveva: «Entrare negli opifici e negli stabilimenti industriali non tanto a dirigere e sorvegliare, quanto a lavorare insieme con le operaie, facendosi esse stesse operaie».

Un particolare significativo è che la terza superiora generale delle Suore Operaie, madre Annunciata Scarpari (1862-1942), fu da giovane filatrice nella filan5da Zamara; poi, quando questa chiuse, per tre mesi assistette le ragazze di Botticino che si recavano a Lonato.

Tadini stesso si era interessato agli inizi degli anni Novanta della filanda Zamara: la sua intenzione era, molto probabilmente, di rilevarla, ma, come spesso accadeva, non aveva sufficienti risorse finanziarie. Suor Letizia Piccini, quarta superiora generale delle Suore Operaie, testimoniò al processo della Positio: «La filanda alta, dove attualmente vi è il seminario, era di proprietà del signor Zamera, ed il fondatore voleva acquistarla per poter fare della maestranza addetta allo stabilimento una famiglia, ma non riuscendo vi entrò come socio per qualche anno. Le operaie che ivi lavoravano erano una quarantina circa».

In seguito egli dovette probabilmente vendere la sua quota di socio (£400), quando nel 1897-98 attraversò un periodo di crisi finanziaria per l'acquisto di un alloggio stabile, separato dalla filanda appena costruita. Aveva chiesto un finanziamento alla Banca San Paolo nell'agosto del 1898; non pervenendogli risposta, il Tadini aveva scritto al conte Carlo Gigli, segretario del consiglio della Banca, sostenendo che, a garanzia del prestito, si sarebbero impegnati lui stesso, Bortolo Moscheni, Giuseppe Moscheni, Luigi Soldi, «con le case Zamera, Battaggia, Zani con tutte le adiacenze». Infatti in una lettera del 2 novembre dello stesso anno al vescovo Corna Pellegrini, accennando al prestito, Tadini elenca anche le rendite annue di cui avrebbe potuto beneficiare, e tra queste riporta anche «£ 400 della casa ex Zamera»

3) La filanda Zamara

La filanda Zamara, nonostante ormai la produzione non fosse più paragonabile a quella della metà del secolo, non chiuse definitivamente: era stata anzi affittata, nel 1901, ad una ditta milanese, la "Semenza e C.".

La ditta "Semenza e C." parteciperà all'esposizione industriale bresciana del 1904. Infatti sul settimanale «Il Cidneo» del 7 agosto 1904 vi è una nota sulla ditta "A. Semenza & C.":

«Questa Ditta importantissima nel suo ramo di pro5duzione e che tiene diversi setifici nelle provincie di: Brescia - Milano - Como, espone nel Grande Miglio, in una elegante vetrina solamente i prodotti del gruppo di setifici che si trovano nella nostra provincia e cioè di tre Filande di cui trovasi una a Verolanuova e due sono a Botticino Sera e di due filatoi di cui uno si trova pure a Verolanuova e l'altro a Pontevico e che complessivamente danno lavoro a più di mille operaie»

La struttura della filanda

Nell'archivio del Seminario diocesano è conservato l'atto di consegna della filanda Zamara alla ditta Semenza. Si tratta di un documento del 1903 che richiama l'affitto negli stabilito per il quinquennio 1901-1906.

«Atto di consegna dell'edificio filanda a vapore con annessi locali, meccanismi ed attrezzi, degli edifici d'abitazione civile e rustica e di un brolo, siti in Botticino Sera, contrada Lavandaio al comunale n. 4 per quanto riguarda gli edifici, il tutto di proprietà del nobile signor Camillo Zamara fu Francesco, alla Ditta Semenza e C. di Milano per una locazione di anni cinque che ebbe principio al 1° Giugno 1901 e avrà termine al 31 Maggio 1906, salvo rinnovazione per un altro quinquennio come da contratto d'affittanza in data 1 aprile 1901 ratificato e registrato a Brescia il 24/4/901»

Questo atto di consegna è molto interessante, perché riporta nelle sue cinquanta pagine la descrizione minuta di tutta la casa Zamara e dei locali della filanda così come si presentavano al5l'inizio del nostro secol

Senza entrare nei particolari della descrizione dell'edificio che diveniva proprietà della ditta Semenza, riportiamo solo le parti maggiormente significative:

Parte Ia: Fabbricato verso monte ad uso d'abitazione civile con secondo piano superiore.

Parte IIa: Fabbricato a mezzodì ad uso industriale con secondo piano superiore.

Pianterreno:

  1. Grande locale, alti a volte ad uso cantina a mattina della Parte 1a. Pavimento in terra e per m2 16 di lastre pietra Sarnico. Contro il lato di mattina piano alto dal suolo m 0,50 per collocarvi le botti con pavimento di cotto e filetto esterno di nove lastre Rezzato di cui una scheggiata.

  2. Locale contenente la stufa a mezzodì del n. 1 ed a mattina del cortile grande.

  3. Locale contenente la caldaia e macchina a mezzodì del n. 2 (...).

  4. Portivo o passatoio a mezzodì del n. 3.

  5. Cucina a mezzodì del n. 4.

  6. Stanza a mezzodì del n. 5.

  7. Rimessa a mezzodì del n. 3 ed a mattina del n. 5.

  8. Stanza a mezzodì del n. 7.

  9. Atrio scuderia a mezzodì del n. 8.

  10. Atrio scuderia a mezzodì del n. 9.

  11. Ripostiglio a sera del n. 10, a cui si accede a mezzo scala a manico.

  12. Magazzino di forma irregolare, essendo la superficie di esso in parte occupata dal n. 11.

  13. Cantina a monte del n. 12 divisa in due parti dal muro con arcata in direzione est-ovest.


Primo piano superiore:

  1. Galettiere (si trattava del locale dove venivano depositati i bozzoli)

  2. Filanda a mezzodì del n. 14.

  3. Locale detto il filandino a mezzodì del n. 15 e sopra il n. 4.

  4. Latrina a mattina del precedente.

  5. Galettiere a mezzodì del n. 16.

  6. Galettiere a sera del n. 18

  7. Stanza a mezzodì del n. 19.


Secondo piano superiore:

  1. Dormitorio sopra il n. 16.

  2. Altro dormitorio con pavimento di assi, tetto a travi, travetti, tavelloni e tegole.

  3. Galettiere sopra il n. 14.

  4. Tetti. Il tetto è per la massima parte a due pioventi.

  5. Muri esterni: i muri esterni sono in generale in buono stato (...).; contro il muro di sera vi è una fontana formata da vaso semicircolare, piedestallo e schienale di pietra con bocchetto di bronzo (...).


Parte IIIa: Cortile grande con fabbricato rustico a mezzodì, cortile piccolo con fab5bricato rustico a mattina, serbatoio e giro d'acqua.

Nel cortile grande allignavano novantasei gambi di viti adulte, una pianta da frutto, due sempreverdi, settantacinque pali e diciotto colonne.

Parte IVa: Brolo a mattina.

Il brolo si coltivava a granoturco. Vi erano inoltre: 25 piante di gelso selvatico, 9 piante di gelso innestato, tre piante di vimini, alcune piante da frutto e 433 gambi di vite adulte.

Parte Va: Macchine, caldaia e congegni meccanici, ed utensili per l'andamento della filanda32.

4) I primi anni del Novecento

In provincia si assisteva frattanto ad importanti mutamenti nell'industria. Momento di osservazione privilegiato è senz'altro costituito dall'Esposizione industriale, che si tenne nel 1904 in Castello.

Arnaldo Gnaga ne fornì l'anno successivo un dettagliato resoconto, in cui prendeva atto dei cambiamenti che stavano avvenendo anche nel settore serico:

«Le filande a vapore hanno preso il sopravvento e gli stabilimenti industriali, attivi per quasi l'intera annata, hanno soppiantato le piccole filande agricole, in esercizio solamente nel tempo necessario a trasformare il prodotto dell'azienda. Così nel 1890 gli opifici si erano ridotti a 68, con un complesso di 2625 bacinelle, di cui 591 ancora a fuoco diretto. Dieci anni più tardi, ossia nel 1900, troviamo il numero delle filande ridotto a 50, con una somma di 2674 bacinelle, di cui solo 358 ancora a fuoco diretto. Proseguì adunque la eliminazione delle piccole filande, talché nel '900 si può dire che quelle a vapore erano le uniche dominanti».

La situazione del settore, è stato osservato, "dal mero punto di vista della capacità produttiva, era di ancora buona tenuta, come indicano i dati sul prodotto dei bozzoli del raccolto interno e di quello della importazione, prodotto che si manteneva sui 4/5 milioni di chili".

Tra l'altro, il prezzo del bozzolo era in forte caduta rispetto agli anni precedenti.

Quante persone lavoravano nelle filande botticinesi in quegli anni? La Camera di Commercio di Brescia nel 1908 descriveva i due opifici di Botticino Sera di proprietà della ditta "Società Industriale Serica Arturo Semenza" di Milano, che era la nuova denominazione assunta dalla ditta Semenza e C.: «La prima (la ex filanda del Tadini) ha 129 operai così distribuiti: uomini 3, donne 55, ragazze 71, è fornita di una caldaia a vapore di atm. 7,5 e un motore a vapore della forza di 3 cav. din. La seconda (si tratta della ex filanda Zamara) ha 2 uomini, 36 operaie e 50 fanciulle, ha una caldaia a vapore da 5 atm. e 2 motori, uno idraulico di 3 cav. e uno elettrico di 2.

Il salario giornaliero per gli operai di entrambi gli opifici è di £ 2,50 agli uomini, 1,30 alle donne, e 1 lira alle fanciulle; gli operai sono tutti assicurati e mantengono attivi gli opifici per 285 giorni all'anno con un orario di 11 ore giornaliere».

Questo dato non comprendeva la filanda di Barbiani, che sarebbe sopravvissuta ancora pochi anni: in essa erano impiegati "un solo operaio, 60 donne e 15 fanciulle". I salari giornalieri erano mediamente superiori, mentre uguale era l'orario di lavoro.

Il Rapporto riferiva, quindi, che in quell'anno il totale degli addetti all'industria serica botticinese assommava a circa 300 unità.

Ancora nel 1911 i dati del censimento industriale davano a 360 il numero degli occupati a Botticino Sera nel settore serico, comprendendo i lavoratori della filanda fondata da Don Tadini, la ex filanda Zamara e la filanda Barbiani.

La "Società Industriale Serica" intanto era divenuta "Unione Industriale Serica", mentre della filanda Barbiani non si ha più notizia.

Nell'Archivio del Seminario Diocesano si conservano due importanti documenti inerenti i successivi passaggi di proprietà della filanda Zamara. Nel 1920 veniva venduto l'immobile, l’anno seguente vi fu la vendita del vigneto.

Oramai l'attività delle filande era entrata in una crisi irreversibile. Esse erano funzionanti per troppo pochi mesi all'anno per costituire un'attività che potesse con5siderarsi ancora redditizia. Inoltre, la trattura della seta era esercitata dagli imprenditori del settore tessile quasi sempre in margine ad altre occupazioni ritenute di preminente importanza.

Proprio nel 1911, tra l'altro, precisamente il 4 giugno, a Roma veniva inaugurato il celebre monumento dedicato a Vittorio Emanuele II, conosciuto anche come 'Altare della Patria', che l'abile ministro bresciano Zanardelli vent'anni prima era riuscito ad appaltare a un imprenditore rezzatese, Davide Lombardi, operante sul territorio di Botticino, impegnando la sua ditta a fornire la straordinaria quantità di circa diecimila metri cubi di marmo. Sarebbe stato il preludio di uno sviluppo ragguardevole del settore marmifero che avrebbe dato notorietà a Botticino ben oltre i confini nazionali.

All'inizio degli anni Venti, l'unica filanda attiva a Botticino era quella fondata da Don Tadini. Essa venne acquistata, il 31 maggio 1920, dalla ditta Girolamo Spalenza e Arturo Semenza, di Verolanuova. La filanda divenne negli anni successivi proprietà di una società svizzera (la E. Appenzeller e C.), quindi della "Società Anonima Filanda di Calcinato" e, infine, nel 1950, avendo ormai cambiato finalità, divenne la sede della ditta vinicola Emilio Franzoni .

Nel Rapporto della Camera di Commercio del 1923 sull'industria tessile si legge:

«Dal 1° giugno 1920 funziona la filanda della ditta A. Semenza fu L. dotata di 100 bacinelle e azionata da un motore elettrico di 3 HP oppure da una motrice a vapore di 8 cavalli.

In essa sono occupati 2 impiegati e 189 operai, dei quali 2 uomini, 146 donne e 41 ragazze. Gli operai percepiscono un salario medio giornaliero di L. 13,70, le operaie di L. 10, le ragazze di L. 6, 10.

Lavora 295 giorni all’anno con un orario di 9 ore e precisamente dalle 7 alle 11,30 e dalle 13 alle 17,30. La suddetta ditta ha inoltre una filanda nel comune di Verolanuova nella quale sono occupati 190 operai».

Anche nel Botticinese, tuttavia, l'economia a grandi passi si andava trasformando e con essa il paesaggio: sparirono dalla campagna i lunghi filari di gelsi (in dialetto "mur") che rifornivano gli abitanti di una legna particolarmente apprezzata per riscaldare le case. Durante la Prima Guerra mondiale, inoltre, l'insufficienza di combustibile fece salire il prezzo della legna da ardere e un gran numero di gelsi venne sacrificato.

Nel dopoguerra vi fu una certa ripresa: si estesero le piantagioni di gelso nano, a cespuglio, ma il prezzo dei bozzoli salì ulteriormente.

Nel 1924 la provincia di Brescia era ancora seconda dopo quella di Milano per la superficie dei gelsi e la produzione di bozzoli, a dimostrazione di uno squilibrio tra la coltivazione e la lavorazione (fattore già riscontrato dal Cocchetti nel 1859). L'Italia viveva il paradosso di essere la più grande nazione fornitrice di seta grezza e nello stesso tempo una fra le maggiori acquirenti di tessuti serici, soprattutto francesi.

Osservava uno studioso dell'epoca: «Oggi stesso, a campagna bacologica 1927 inoltrata, assistiamo ad una accresciuta riluttanza ed apatia degli agricoltori per gli allevamenti dei bachi».

Migliaia di donne, abbandonando il lavoro nei campi per quello delle filande, venivano a conoscere, sulla propria pelle, la difficile condizione del salariato nelle fabbriche.

Le vicende della sericoltura durarono ancora alcuni decenni, fino a quando un insieme di fattori: la concorrenza estera, l'introduzione delle fibre sintetiche, le profonde trasformazioni sociali ed economiche e la scomparsa dell'agricoltura, ridussero la lavorazione bresciana della seta quasi al nulla. Inoltre, le filande moderne avevano bisogno del credito in dimensioni prima sconosciute. Esse dovevano acquistare masse di bozzoli in un limitatissimo periodo dell'anno: la campagna commerciale, le contrattazioni, gli approvvigionamenti si concentravano in poche settimane. Conseguentemente, si trattava di mobilitare e raccogliere ingenti somme di denaro che spesso gli imprenditori non possedevano. Da qui il ricorso alle banche che, tuttavia, richiedevano delle garanzie molto onerose.

Dopo la Seconda Guerra mondiale iniziò un lento e continuo declino. La filanda fondata dal Tadini chiuderà definitivamente nel 1948.

Si stava ormai sviluppando un altro tipo di industria che avrebbe caratterizzato fortemente i decenni successivi, quella delle calze. Alla fine del 1918 l'impren5ditore Roberto Ferrari acquistò il calzificio Gei di Botticino Sera, che contava una sessantina di operaie, iniziando così la sua attività industriale nel paese.

Il settore avrebbe aperto, pur se ancora con condizioni lavorative molto dure, notevoli opportunità occupazionali per la manodopera femminile del paese.

5) Il lavoro in filanda

Un'Italia contadina. L'Italia all'inizio del Novecento era una nazione ancora prevalentemente contadina: il 62% della popolazione era occupata nell'agricoltura. La povertà era diffusa, l'analfabetismo riguardava il 70% della popolazione.

Non si può capire il lavoro nella filanda se non si ripercorre un po' dall'inizio la vicenda del baco da seta, a partire dalla coltivazione dei gelsi e dall'allevamento dei bachi,, che comportava una serie di procedimenti che per chi non ha vissuto l'epoca contadina fa fatica a rendersene conto. L'allevamento dei bachi mobilitava l'intera famiglia: "Nelle vallate bresciane l'allevamento del baco è fatto dalle donne e ragazze della famiglia del piccolo proprietario, affittuale o colono. In collina principalmente dalle donne e dai ragazzi delle famiglie dei mezzadri. In pianura, dove vige la conduzione col salariato, dalle donne e ragazzi delle famiglie obbligate". La coltivazione dei bachi continuò tuttavia, come detto, ancora per diversi anni.

L'opificio. Le prime filande erano ubicate nei portici aperti delle case coloniche. Con l'introduzione del vapore, si poterono sfruttare edifici coperti. Esse consistevano in strutture molto grandi, con degli ampi saloni e delle grandi vetrate per illuminare le sale dove si trovavano le bacinelle che contenevano i bozzoli (le galète) da cui si ricavava il filo di seta. Una esauriente descrizione dell'edificio può essere sia la filanda Tadini o della filanda Zamara, descritta nelle pagine precedenti.

Le filande, come detto, sono state il primo esempio di organizzazione industriale: a metà strada tra la lavorazione contadina (i bozzoli venivano portati e allevati dai contadini), ma già con una impostazione di lavoro tipica degli opifici dell'era più industriale, con molte delle caratteristiche cui abbiamo accennato all'inizio del contributo.

Le mansioni. Il lavoro in filanda era riservato quasi esclusivamente alle donne: si iniziava a lavorare a undici, dodici o tredici anni; si lavorava 8, 10, fino a dodici ore al giorno a seconda dell'intensità a meno del lavoro, soggetto a concentrarsi in pochi mesi.

La prima mansione era quella detta in dialetto di 'spasarina'. In cosa consisteva? Nel mettere i bozzoli nei fornelli, dove l'acqua bolliva a 80-90 gradi, farli scaldare e con una scopina farli girare e trovare il capo del filamento.

Dopo i fili venivano uniti e passati alle filere, che erano le operaie esperte della filanda che provvedevano alla filatura attorcigliando i fili sulle matasse.

Un bozzolo buono può avere circa tremila metri di filo. Per avere un Kg di bozzoli ne occorrono dai 450 ai 500. Per ottenere un Kg di seta occorrono circa nove Kg di bozzoli.

Poi, nella stanza delle matasse, veniva controllato che tutto fosse stato eseguito perfettamente.

L'ambiente era poco salubre, il lavoro durava dalle otto alle dieci ore al giorno: bisognava stare attenti a non sbagliare, altrimenti si rischiava di non essere pagati per quella giornata.

Il ricambio di manodopera, che non era specializzata, era frequentissim.

La salute delle lavoratrici. Un capitolo a parte meriterebbe la trattazione delle pessime condizioni di vita delle filandiere.

Lo stesso don Tadini, vedendo le ragazze che al suo tempo lavoravano nelle filande, le paragonava a "limoni spremuti".

Alcuni studiosi hanno individuato delle forme di tubercolosi nella lavorazione della filanda. Un resoconto di un dispensario degli anni Venti nel Marchigiano riferiva che

"L'aumento ... della tubercolosi nella classe numerosa delle filandaie si spiega... con l'esplicamento del loro mestiere completamente in ambienti chiusi ... con un genere di lavoro che espone facilmente alle cause reumatizzanti e quindi ai catarri delle vie respiratorie; con un genere di lavoro faticoso e per le bambine anche un poco protratto; con un'alimentazione non sempre sufficiente ed atta a compensare le perdite quotidiane, e con la poca e niuna cura della propria salute e l'ignoranza delle più elementari norme d'igiene personale e domestica: fattori questi che diminuiscono la resistenza organica delle donne, specie nel periodo dell'accrescimento e della pubertà".

Vi era addirittura una forma tubercolare dovuta al cosiddetto 'bacio della morte'. Osservava uno studioso:

"le operaie addette alla prima fase della filatura dei bozzoli mancavano mezzi meccanici per prendere il capo del filo e introdurlo nella macchina; per supplire a ciò le operaie dovevano avvicinare la bocca al bozzolo e aspirare forte in modo da attrarre il capo del filo e prenderlo poi fra le dita. Tale atto è chiamato il bacio della morte poiché la prolungata ripetizione di questo assorbimento violento d'aria si ripercuote sul tessuto polmonare, provocando a lungo andare una forma di tubercolosi".


L'osservazione trova conferma anche nella realtà botticinese. Nelle testimonianze raccolte da Carlo Simoni, si legge:

"Anche a Botticino c'è stata un'invasione di tubercolotici. Intere famiglie si sono ammalate. Poi alcune si sono trascinate la malattia. E la mia mamma diceva che la tubercolosi era partita dalla filanda. Molti cercavano di sposarsi con persone non di Botticino per cambiare il sangue (...).

Si pensava che la tubercolosi si trasmettesse anche attraverso l'acqua dei pozzi. Ma prima che fosse aperta la filanda la tubercolosi non c'era. I contadini facevano molta economia nel mangiare: una mela a mezzogiorno, un fico la sera e allora la malattia ha trionfato".


Erano condizioni di lavoro estremamente dure.

Le filande sopravvissero ai primi calzifici. La manodopera dei primi calzifici, come abbiamo osservato all'inizio, proveniva soprattutto da ex filandiere. Col tempo, del lavoro in filanda sarebbe rimasto solo il ricordo, forse addolcito dal trascorrere degli anni.

Le filande, là dove non sono state abbattute o trasformate, costituiscono oggi interessanti reperti di archeologia industriale.

 Sulla Esposizione bresciana. Let5tere di Giuseppe Zanardelli, Brescia 1857, p. 113. Continua Zanardelli: «l’acqua difatti vi si riscalda in modo più equabile e vantaggioso, si ottiene un grande risparmio di braccia e un grande risparmio di combustibile, è tolto il bisogno della continua ed imbarazzante assistenza de’ fuochisti; la filanda non è mai offuscata da ombra di fumo che contamini il brillante color della seta; ogni molinello può andare a doppia velocità di quello che vien mosso a mano, e fila quindi quanto due molinelli ordinarii; il locale può essere la metà di quello d’una filanda comune, e la filanda medesima ha bisogno di minori riparazioni; inoltre si ricava maggior rendita in seta, perché il bozzolo, restando immerso pochissimo in bagno, non lascia disperdere una parte della sua gomma, né va soggetto a frequenti casi di sommergersi e quindi di non poter essere filato: finalmente anche dal lato igienico vi guadagna la salute delle lavoratrici».


Ibidem, p. 114. Entrambe le filande svilupperanno la loro attività fino alla fine del secolo. Attilio Franchi chiuse definitivamente, nel 1896, sia la filanda che il filatoio del nonno (cfr. P. Ferri, Grande industria e banca d'affari. L'emblematica vicenda del gruppo Franchi-Gregorini, in Maestri e imprenditori. Un secolo di trasformazioni nell’industria a Brescia, collana "Per una storia dell’economia e della società bresciana", CAB, Grafo, Brescia 1985, p. 98 e ss.) e impiantò una fonderia (Fonderia Fratelli Franchi).


Ibidem.


 Si trattava di un apparecchio usato nella trattura della seta che permetteva di unire più bave in un unico filo ("è più seguito presso di noi - osservava Zanardelli - probabilmente perché permette di filare a tre o quattro capi anziché a due", Sulla Esposizione bresciana, p. 115).


Ibidem. Il 'titolo' era, in sostanza, lo spessore del filo serico.


"Da quattro filande a vapore aventi 299 aspi, ora ascesero a nove; ma il numero ne è tuttavia piccolissimo se consideriamo che noi contiam quasi un terzo delle filande di tutta la Lombardia, e un terzo degli aspi che novera il Piemonte. Le più distinte sono quelle di Zamara a Botticino, e di Franchi, presso la città, dove s'applica apposito processo per la macerazione dei bozzoli, e doppie bacinelle" (C. Cocchetti, Brescia e sua provincia, cit., p. 233).


 "In fase di avvìo di una produzione industriale di massa, la filanda che utilizza bacinelle a fuoco in luogo di quelle a vapore accomuna agli svantaggi indubitabili del minore rendimento del lavoro, della maggiore insalubrità per i lavoranti, del più accentuato dispendio di combustibile, anche alcuni vantaggi. L'investimento di capitale fisso richiesto dalla filanda a fuoco è di quattro volte inferiore rispetto a quello della filanda a vapore; il combustibile impiegato in eccesso, a dispetto del pur pericoloso saccheggio dei boschi, è risorsa difficilmente utilizzabile per un uso alternativo economicamente valido. Infine, se si tiene impietosamente conto che in sovrabbondanza di mano d'opera disponibile il suo costo tende ad azzerarsi (in economia pre-industriale esso viene pressoché sempre considerato nullo nelle attività artigianali e casalinghe), la risorsa umana può essere più duttilmente sfruttata a compensare il minor rendimento degli altri fattori di produzione" (S. Violante, L'economia bresciana nell'economia lombarda (1861-1914), in AA.VV., Maestri e imprenditori, cit., p.11).


 Sulla Esposizione bresciana, cit., p. 117.


 Ibidem, p. 117.


 Sarebbe interessante seguire le vicende dei Cazzago anche attraverso l'evoluzione del Catasto. Ad esempio, nel Catasto napoleonico del 1809 riguardante Botticino Mattina sono segnalate tre nobili famiglie Cazzago: quella di Agostino, Pietro e Vincenzo qm. Alfonso, con ben 686,64 pertiche di terreno, quella di Pietro qm Carlo Antonio con 21,18 pertiche e quella di Marcantonio qm. Bartolomeo di 228,43 pertiche. Nel Catasto austriaco, che risale al 1852, risultano quattro famiglie Cazzago: quella di Antonio Maria qm Marcantonio, con 395,62 pertiche; quella di Vincenzo qm. Alfonso con 341,75 pertiche, quella di Alfonso, Annibale e Luigi di Vincenzo, con 147,60 pertiche, e infine quella fraterna di Vincenzo, con 25,189 pertiche. Infine, nel Catasto del Regno d’Italia (1897) compare anche Antonio Maria Cazzago qm. Marco Antonio con ettari 51.25.00 (cfr. P. Calini Ibba, La proprietà fondiaria del territorio bresciano: nei catasti napoleonico, austriaco e del Regno d' Italia, Fondazione civiltà bresciana, Brescia 2000, 2 v. A testimonianza dei possedimenti di questa famiglia è il palazzo Cazzago nella località di Sott'Acqua. Tra l'altro, Antonio Cazzago fu sindaco di Botticino Mattina dal 1869 al 1876 (M. Tedeschi, M. Tedeschi, Il bosco, la vigna, la pietra. Botticino nella storia, Botticino 1988, p. 232).


 Osserva F. Facchini: «La situazione di dispersione delle aziende dovette farsi, anche a causa delle vicende bacologiche, veramente difficile e indurre alla concentrazione se, dopo che nel 1876 si erano annoverate ancora circa 400 filande, con 1394 bacinelle nelle filande a vapore e 1808 in quelle a fuoco diretto, verso il 1890 costa5tiamo una caduta verticale del numero delle filande, 68, sparse in 28 comuni» (F. Facchini, Alle origini di Brescia industriale, L. Micheletti, Brescia 1980, p. 56). Sulla situazione a livello nazionale, cfr. V. Castronovo, Le “Itale economiche” alla vigilia dell’Unità nazionale, in AA.VV. Storia d’Italia, vol. III, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino 1973, in particolare le pp. 628-632.


 "La filanda a vapore è ormai prevalente in tutte le provincie lombarde e, a differenza di quanto accade ancora largamente in altre zone del paese, gli industriali sono unanimi nel riconoscerne la superiorità su quella a fuoco, e nell'affermare che solo mediante una sua generalizzazione la trattura italiana può vivere e svilupparsi proficuamente [...]. Per di più essa rende possibile adunare la lavorazione in locali chiusi (non più, come prima, nei portici aperti delle case coloniche), e pertanto assicura una maggiore durata e continuità del lavoro nel corso della giornata e dell'anno" (G. Are, Alle origini dell'Italia industriale, Guida, Napoli 1974, p. 46).


 Grafo, Brescia 1995. Il sottotitolo è: Filande e calzifici a Botticino dalla fine del secolo scorso ad oggi: documenti e testimonianze.


 Egli osserva: «La situazione, a fine secolo, era dunque quella di un paese in cui non si può dire si fosse delineata, in modo irreversibile, una precisa vocazione produttiva in campo tessile, ma si erano comunque formati i presupposti per una sua affermazione: alle numerose donne che, probabilmente soprattutto negli anni dell'adolescenza e della prima giovinezza, avevano conosciuto il lavoro alle bacinelle, si dovevano aggiungere quelle che continuavano il tradizionale lavoro di filatura e tessitura a domicilio. Chiamato a rispondere ai quesiti di una statistica ministeriale, nel 1892, il sindaco di Botticino Mattina aveva assicurato che in paese erano attivi, mediamente per 100 giorni all'anno, 16 telai domestici per la tessitura del lino e della canapa; quello di Sera riferiva invece di soli 8 telai, cui si lavorava per non più di 90 giorni» (Ibidem, p. 17).


 Sulle vicende della famiglia Zamara e sugli sviluppi della filanda, cfr. M. Busi, La filanda delle vocazioni. Storia di Villa San Giuseppe a Botticino, Istituto "G. De Luca per la storia del prete", Brescia 2000, pp. 36-57.


Angelo Barbiani fu anche il presidente della Società Agricola Operaia di Mutuo Soccorso, nata nel 1893 per iniziativa del Tadini.


 Cfr. gli Annali di statistica. Statistica industriale 1892. Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Bre5scia.


 Arcangelo Tadini, nato a Verolanuova nel 1846, venne nominato parroco di Botticino nel 1887., dove rimase fino alla morte, avvenuta il 20 maggio 1912. Il 3 ottobre 1999 è stato beatificato da Giovanni Paolo II. Fra le sue opere, ricordiamo la Società Agricola Operaia del Mutuo Soccorso, fondata nel 1893, l'avvio della filanda nel 1895, il Convento delle Operaie nel 1898 e la fondazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth nel 1900. Per una bibliografia su Tadini, oltre al prezioso studio di L. Fossati, Don Arcangelo Tadini e la sua opera sociale, Pavoniana, Brescia 1977, si possono consultare G. Pini, Il sacerdote Arcangelo Tadini, Poligrafica San Faustino, Chiari 1960; F. Molinari - A. Comuzzi, Il prete sociale e le operaie di Dio, Santa Casa di Nazareth, Botticino 1990 e D. Del Rio, Il tessitore di Dio, Queriniana, Brescia 1999.


 Archivio Suore Operaie, Una parola a chi ama l'operaia, Botticino, aprile 1909. È un appello in perfetta sintonia con la Rerum Novarum, che affermava, tra l'altro: «Un lavoro proporzionato ad un uomo adulto e robusto, non è ragionevole che si imponga a donna o fanciullo» (R.N. n. 26).


 P. Vivenzi, Vita di Suor Maria Crocifissa, Tip. Vescovile del Pio Istituto, Brescia 1864. Sulla vita di Paola Di Rosa, cfr. L. Fossati, Beata Maria Crocifissa di Rosa, fondatrice delle Ancelle della Carità, Tip. Opera Pavoniana, Brescia 1940, F. Molinari, Maria Crocifissa di Rosa santa per gli altri, Paoline, Milano 1987 e A. Monticone-A. Fappani-A. Nobili, Una intuizione di carità. Paola Di Rosa e il suo istituto tra fede e storia, Ancora, Milano 1991.


 L. Fossati, op. cit., p.171. L'edificio in cui era attiva la filanda Barbiani sarebbe divenuto in seguito una casa di ri5poso.


 Ibidem, p. 172.


 Ecco come L. Fossati descrive la filanda del Tadini: «Il fabbricato principale era lungo 44 metri e largo 9, esclusi la scala, il locale caldaie e il portico. Di fronte alla filanda vi erano due vasche ampie uguali per la raccolta e la decantazione dell'acqua: costruite in calcestruzzo esse occupavano circa otto metri per diciassette ed avevano una profondità di circa tre metri. Il portico con sovrastante loggia, con cinque campate larghe e due strette (di cui una in principio con il soffocatoio, l'altra in fondo con il lavatoio), e copriva un'area di 31 metri e mezzo di lunghezza e 6,50 di larghezza (...). Il resto del portico era adibito a magazzino e a deposito. Alla loggia si accedeva da una scala in legno. La casa civile, abitazione del direttore e di parte delle filandiere, comprendeva la portineria con tre locali su tre piani, l'atrio d'ingresso e sette vani al piano terreno; una piccola cantina, altri sei vani al primo piano e due stanzoncini con diciannove letti doppi al secondo piano. L'abitazione del direttore era servita di scala in pietra e due servizi; il dormitorio da scala esterna in legno e altro servizio. La casa privata ed il lavatoio erano dotati di acqua potabile» (L. Fossati, op. cit., p. 175).


 Archivio Suore Operaie, Regole dell'Istituto delle Suore Operaie della S. Casa di Nazareth sorto in Botticino Sera l'anno 1898, ms.


 Dalle linee della nuova istituzione presentate da Don Tadini al Prefetto della Sacra Con5gregazione dei Religiosi, riportato nella Regola di vita delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth . Lo stesso Padre Maffeo Franzini s. i., che aiutò Don Tadini nel sostenere la nascente congre5gazio5ne, scriveva al vescovo Corna Pellegrini nel 1901: «Così, fattesi esse stesse operaie, ma autorevoli per professione di vita religiosa e per istruzione tecnica, entreranno in quel5le masse d'operaie occupate nell'industria e saranno esse il buon lievito che, impedita la corruzione d'altri mali lieviti, conserveranno alle operaie religione e costume» (dalla Regola di vita delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth).


 Cfr. L. Fossati, op. cit., p. 382.


 Relazione scritta di Letizia Piccini nel 1943, Congregatio de causis sanctorum, Canonizationis Servi Dei Arcangeli Tadini, Positio super virtutibus, vol. I. Il fatto è confermato dalla testimonianza di Adele Ferretti: «(…) So che lui si interessò subito della filanda. Dapprima mi pare che l'arciprete fosse in società colla vecchia filanda. Cessata questa, per impedire che le ragazze andassero fuori paese a lavorare, fondò lui stesso la filanda» (testimonianza del 1960, Positio, vol. I.).


 Dalla Positio, vol. II, Biografia documentata, p. 252. Lo stesso Moscheni era socio della filanda Zamera: Elvira Ambrogio, maestra comunale di Botticino al tempo del Tadini, ricordava, nel processo informativo sulla fama di santità «l'ascendente che il Tadini esercitò su l'ex sindaco, Bortolo Moscheni, che, socio della filanda Zamera in Botticino (…)» (Processo Ordinario, sessione XXIV, adl.18).


 «Il Cidneo», 7 agosto 1904, p. 2.


 Archivio Seminario Diocesano, Faldone «Villa S. Giuseppe», fascicolo «Consegna della filanda Zamara in Botticino Sera 1901-1906».


 Vi è nell'intestazione dell'Atto di consegna un'Avvertenza Generale che recita, al punto e): "La filanda si consegna in istato d'esercizio essendo stata, a termini del contratto d'affittanza, ricostruita dalla ditta Locataria e regolarmente collaudata».


 Ecco la descrizione: "Locale della Filanda. Due cassoni contenenti le aspe disposti in due ordini da monte e mezzodì, sostenuto ognuno da 25 piedi in ghisa e mensole in legno. Ognuno contiene 24 aspe e tutti gli accessori per il loro movimento e le tubazioni per il vapore. Le aspe del diametro di m 0,40 sono in legno su alberetto di ferro con ruota dentata in ghisa e puleggia di legno. le aspe funzionano per meccanismo in ottimo stato. i cassoni sono mantenuti in posto da passanti in ferro a bolloni. Due banchi in ghisa portati da sostegni in ghisa con 24 bacinelle ciascuno, 12 battenti (parte del telaio che serve alla navetta nel suo moto e serra fortemente la trama dopo il suo passaggio, nda) e 12 metta-bave (la bava è il filo di materia serica avvolto attorno al bozzolo, nda) in rame stagnato (...). Estrattore della fumana in tubi di grossa latta e lamiera zincata. Il vapore condotto dalla caldaia a mezzo di tubi in rame è distribuito dai tubi circolanti entro i cassoni agli archetti che lo conducono ai gruppi dei banchi. Tubo di scarico in rame corrente sotto i banchi in due rami convergenti nel mezzo che si congiungono in canale di lamiera il quale si scarica in altro canale di rame con sfogo nel brolo.

Locale detto il Filandino. Caldaia in rame per macerazione posta nel fornello già descritto. La caldaia è alimentata da vapore con tubo di diramazione dal condotto principale nella filanda passante sotto il soffitto del sottoposto passatizio sostenuto da una braga; riesce nella caldaia in forma di baionetta; tanto all'imbocco che allo sbocco è fornito di rubinetto bronzeo con maniglia di legno".


 Cfr., al proposito, M. Taccolini, Originalità e modi del coinvolgimento nella prima in5du5strializzazione italiana, in AA.VV., Brescia e il suo territorio, Milano 1996.


 A. Gnaga, La provincia di Brescia e la sua Esposizione. 1904, Brescia 1905, p. 122.


 S. Zaninelli, Aspetti economico-produttivi, di mercato e tecnologici, in S. Zaninelli (a cura), Storia dell'industria lombarda, vol. II, Dall'Unità politica alla Grande Guerra, tomo 2o, Edizioni Il Polifilo, Milano 1991, p. 9. Sulla situazione bresciana, cfr. S. Violante, L'economia bresciana nell'economia lombarda (1861-1914), in AA.VV., Maestri e imprenditori, cit. In particolare, sottolinea l'autore: «Verso la metà degli anni Novanta, Brescia si può dire abbia abbandonato il campo nonostante la sopravvivenza della coltivazione del bozzolo (3 milioni di Kg/anno), di una cinquantina di filande ancora attive, per lo più dotate di bacinelle a vapore, e di una ventina di fabbriche per la torcitura e l'incannaggio» (p. 21).


 Camera di Commercio ed Arti di Brescia, Statistica industriale della provincia al Gennaio 1908. Industrie tessili, Brescia 1908.


 Ibidem.


Probabilmente si era trasferito a Caionvico.


 «Il rovinoso declino della bachicoltura, i cui primi sintomi già si avvertono negli anni che precedono la prima guerra mondiale, è testimoniato dai dati relativi al raccolto dei bozzoli. Le cause del fenomeno, che in terra bresciana ha provocato conseguenze particolarmente dolorose per l'importanza delle fibre tessili, una volta apparsi i filati artificiali e sintetici che hanno contribuito a mutare profondamente il gusto e la moda» (A. De Maddalena, L'economia bresciana nei secoli XIX e XX, in Storia di Brescia, cit., p. 569).


Sullo sviluppo dell'industria marmifera, cfr. M. Tedeschi, Il paese della pietra, in P. Corsini-G. Tirelli (a cura), Rezzato. Materiali per una storia, Rezzato 1985; M. Tedeschi, Il bosco, la vigna, la pietra, op. cit.; Il botticino e la pietra bresciana nelle lastre del fotografo Negri, Negri edizioni, Brescia 1990; I ricordi sono pietre. Lotte operaie e vita politica nelle testimonianze dei militanti comunisti di Botticino, a cura di F. Secondi e C. Simoni, Botticino 1990 e il recente M. Taccolini (a cura), Rezzato. Storia di una comunità, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 2000.


 Cfr. C. Simoni, op. cit., p. 29.


 Camera di Commercio ed Industria di Brescia, L'industria tessile al 1 gennaio 1923, Brescia 1923.


 Constatava amaramente lo studioso: "È grande la sproporzione fra la materia prima e la lavorata; e forse un giorno non si crederà che i nostri bozzoli vengano ora filati fino nel mezzodì della Francia, e ritornino poi convertiti in manifatture, facendosi pagare il decuplo e fino il centuplo di più" (C. Cocchetti, Brescia e sua provincia, cit., p. 234).


 L. Inganni, Le industrie bacologiche, UTET, Torino 1927, p. 331.


 Per quanto riguarda lo sviluppo settore tessile, rimandiamo al volume di C. Simoni, Alle origini di un distretto industriale, cit., che riporta anche alcune testimonianze in merito all'attività del calzificio Ferrari. Il rapprto della Camera di Commercio del 1927, così descriveva l'attività del gruppo Ferrari: "Lo stabilimento della ditta Calzificio Roberto Ferrari e C. con sede in Brescia, è azionato da 16 HP di forza elettrica ed occupa 279 operai fra uomini e donne. Lavora 8 ore al giorno per 300 giorni circa l'anno. Produce calze di cotone per uomo, donne e bambini. La ditta ha inoltre stabilimenti nei comuni di Brescia, Paderno F.C., Ospitaletto B. e Saiano F.C." (Camera di Commercio di Brescia, L'economia bresciana. Struttura economica della provincia di Brescia, 1927). Per le vicende industriali di Roberto Ferrari, cfr. U. Calzoni, Dalle calze al cotone di qualità: con la riconversione produttiva del secondo dopoguerra si rinsalda l'impero tessile costruito negli anni venti dal mantovano Roberto Ferrari, in La Banca Credito Agrario Bresciano e un secolo di sviluppo. Uomini, vicende, cit., vol. II.


 Cfr. i dati riportati in AA.VV., Un secolo da non dimenticare. L'evoluzione socioeconomica che ha trasformato l'Italia, "Censis. Note & Commenti", a. XXVI, n. 4, aprile 2000.


 Sulle trasformazioni del baco da seta rimandiamo all'Allegato 2.


 Camera di Commercio e Industria di Brescia, La bachicoltura in provincia di Brescia durante il trentennio 1895-1925, Brescia 1925.


 Cfr. L. Fossati, Don Arcangelo Tadini, cit.


Un industriale del Varesotto si lamentava di questi mutamenti e aggiungeva: "siccome poi quasi tutte le fanciulle pigliano marito verso i vent'anni, così si ha nelle filande e nei filatoi un continuo cambiamento di personale, gli industriali non riescono mai ad avere operaie abili e per conseguenza difficilmente sostengono la concorrenza che in questi ultimi anni ci va facendo l'estero nel lavoro delle sete asiatiche" (cit. da G. Are, Alle origini dell’Italia industriale, cit., p. 49). Egli puntava evidentemente su personale adulto.


 Resoconto morale ed economico del dispensario antitubercolare per il triennio 1922-24, Fano 1925, p. 2, riportato da P. Sorcinelli, Il "bacio della morte". Lavoro femminile e tubercolosi nelle filande marchigiane (1900-1930): indicazioni di ricerca e primi risultati, in AA.VV. (a cura di M.L. Betri e A. Gigli Marchetti), Salute e classi lavoratrici in Italia dall'Unità al Fascismo, F. Angeli, Milano 1982.


52 B. Buozzi, Le condizioni della classe lavoratrice in Italia, 1922-1943, a cura di A. Andreasi, in Istituto G.G. Feltrinelli, Annali 1972, Milano 1973, p. 465, citato da P. Sorcinelli, Il bacio della morte... cit., p. 158.


 Testimonianza di Giulia Arici e Mario Rossi, in C. Simoni, Alle origini di un distretto industriale, cit., p.53.


 Per una panoramica di testimonianze orali di filandiere botticinesi rimandiamo a Storie de filanda, filmato realizzato nel 2000 dal Centro Audiovisivi San Gallo, che ripercorre, anche attraverso interviste ad alcune anziane filatrici, il clima del lavoro nelle filande di inizio Novecento.


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